Terence Trent D’Arby‏

Avevo dodici anni e andavo in seconda media. Lei si chiamava Barbara ed era bellissima. Caschetto nero, nasino alla francese, occhioni da cerbiatto. Il giorno in cui mi invitò al suo compleanno ero il ragazzino più felice del mondo. Fantasticai per giorni su quell’evento grandioso, immaginandomi sguardi intensi, ammiccamenti e infine confessioni amorose. Ma poi, come spesso accade, la festa si rivelò una gran rottura di coglioni. Patatine, cocacola, silenzi, imbarazzi preadolescenziali, giochi idioti e musicassette. Già, musicassette. Tra queste ce n’era una che mi colpì all’istante, appena fu inserita nel radioregistratore Grundig grigio. Si trattava, come avrete intuito, di Introducing the Hardline according to Terence Trent D’Arby. Le canzoni erano una più bella dell’altra e non lasciavano scampo. Il giorno dopo chiesi a mio padre dieci mila lire e andai subito ad acquistarlo.

La cotta per Barbara passò in fretta, sostituita da quella per Elisa, poi da quella per Marcella, poi da quella per Lucia… ma la passione per questo album non mi abbandonò mai: sopravvisse alla scoperta dell’Heavy Metal, poi del Punk, poi dei Sixties…

In seguito quel disco accumulò tanta polvere, è vero: c’erano tante cose da scoprire ed ascoltare. Ma da qualche parte quel ragazzino imberbe e insicuro si esalta ancora quando ascolta Wishing Well, Dance Little Sister, Rain, Sign Your Name o Seven More Days.

Michela

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